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"Date a Cesare quel che è di Cesare"

  Secondo le diverse versioni del racconto, alcuni personaggi decisero di mettere in difficoltà Gesù chiedendogli se gli Ebrei dovessero o meno rifiutarsi di pagare le tasse agli occupanti Romani. Nel   Vangelo secondo Luca   si specifica che, evidentemente attendendosi che Gesù si sarebbe opposto al tributo, essi intendevano «consegnarlo all'autorità e al potere del governatore», che all'epoca era   Ponzio Pilato   e che era responsabile della raccolta dei tributi. I   vangeli sinottici   raccontano che gli interlocutori si rivolsero a Gesù lodandone l'integrità, l'imparzialità e l'amore per la verità, poi gli chiesero se fosse o meno giusto per gli Ebrei pagare le tasse richieste da Cesare. Gesù, dopo averli chiamati ipocriti, chiese loro di produrre una moneta buona per il pagamento   e poi di chi fossero nome e raffigurazione su di essa; alla risposta che si trattava di Cesare, rispose «Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (il   Vang

I Dottori della Chiesa


Il termine "Dottore della Chiesa" è un titolo che le Chiese cristiane attribuiscono a personalità religiose che hanno mostrato, nella loro vita e nelle loro opere, particolari doti di illuminazione della dottrina, sia per fedeltà, sia per divulgazione o per riflessione teologica.
Questo titolo è concesso o dal papa stesso o da un concilio. Si tratta di un riconoscimento attribuito eccezionalmente ed è dato solo postumo e dopo un opportuno e preventivo processo di canonizzazione.
In origine vi appartenevano solo santi e teologi della Chiesa d'occidente, per esempio sant'Ambrogio, sant'Agostino da Ippona, san Girolamo e papa Gregorio I, che furono proclamati dottori della Chiesa nel 1298 da papa Bonifacio VIII.
Nel 1568 vennero proclamati dottori della Chiesa: sant'Atanasio, san Basilio Magno, san Giovanni Crisostomo e san Gregorio Nazianzeno, che appartenevano alla tradizione e alla Chiesa orientale, assieme a san Tommaso d'Aquino. Quest'ultimo ebbe una pluralità di titoli: oltre a quelli di Doctor Ecclesiae e di Doctor Angelicus, tributatigli da San Pio V, ricevette il titolo di Patronus caelestis studiorum optimorum, con la lettera apostolica Cum hoc sit di papa Leone XIII.
Alcuni dottori della Chiesa si distinsero per lo stile e il pregio letterario delle loro opere scritte così come delle trascrizioni dei loro discorsi pubblici. La maggioranza dei Dottori compose opere apologetiche di rilevanza teologica, scritte in difesa del deposito della fede cristiana e contro le eresie del loro tempo. In alcuni casi, fu enfatizzato l'aspetto dottrinale, come nelle opere di Gregorio e Ambrogio; l'aspetto mistico negli scritti di santa Caterina da Siena e di san Giovanni della Croce; quello aubiografico, rinvenibile nelle Confessioni di sant'Agostino da Ippona.
Andiamo a conoscere brevemente questi Dottori della Chiesa:

Gregorio I papa nacque verso la metà del VI secolo da Silvia, appartenente a una ricca famiglia siciliana, e da Gordiano, appartenente all'aristocrazia senatoriale, la classe dominante dell'antica Roma che aveva mantenuto prestigio economico e sociale, nonostante la caduta dell'Impero. Non è affatto dimostrata, invece, la sua relazione di parentela con la Gens Anicia, che spesso è stata richiamata per sottolineare le nobili origini del futuro Gregorio I.
La sua formazione culturale non è di elevato livello. A differenza di Agostino e Cassiodoro, non si formò con lo studio dei grandi autori dell'aetas aurea (Sallustio, Orazio, Virgilio, Ovidio), bensì con quella tradizione letteraria impoverita che era propria della sua epoca, dell'età tardo-antica. Devoto ammiratore di Benedetto da Norcia, Gregorio impegnò tutte le sue notevoli sostanze per l'assistenza ai bisognosi e per trasformare i suoi possedimenti a Roma e in Sicilia in altrettanti monasteri. Egli stesso si fece monaco rinunciando all'altissima carica pubblica; fondò un monastero nella propria abitazione sul colle Celio intitolandolo a S. Andrea ad Clivum Scauri.
Il 3 settembre 590, arrivò da Costantinopoli la ratifica all'elezione pontificale; sebbene Gregorio tramite lettera(che probabilmente non sapeva che era stata sostituita) rinnovasse le sue reticenze alla missione a cui era chiamato, venne consacrato papa. L'ascesa quasi "forzata" al soglio pontificio lo turbò profondamente e provocò in lui una sincera contrarietà, che solo la fede incrollabile e la convinzione di poter svolgere un ruolo di guida per la redenzione dell'umanità intera, riuscirono a fargli superare.
Gregorio I riorganizzò a fondo la liturgia romana, ordinando le fonti anteriori e componendo nuovi testi. L'epistolario (ci sono pervenute 848 lettere) e le omelie al popolo documentano ampiamente sulla sua molteplice attività e dimostrano la sua grande familiarità con i Testi sacri.
Promosse quella modalità di canto tipicamente liturgico che da lui prese il nome di "gregoriano": il canto rituale in lingua latina adottato dalla Chiesa cattolica, che comportò, di conseguenza, l'ampliamento della Schola cantorum. Paolo Diacono (scrive verso il 780), pur ricordando molte tradizioni giunte fino a lui, non ha una parola sul canto né sulla Schola. Alcune illustrazioni di manoscritti dal IX al XIII secolo tramandano una leggenda secondo la quale Gregorio avrebbe dettato i suoi canti a un monaco, alternando la dettatura a lunghe pause; il monaco, incuriosito, avrebbe scostato un lembo del paravento di stoffa che lo separava dal pontefice, per vedere cosa egli facesse durante i lunghi silenzi, assistendo così al miracolo di una colomba (che rappresenta naturalmente lo Spirito Santo), posata su una spalla del papa, che gli dettava a sua volta i canti all'orecchio. In realtà i manoscritti più antichi contenenti i canti del repertorio gregoriano risalgono al IX secolo e pertanto non si sa se lui stesso ne abbia composto qualcuno.

Sant'Ambrogio di MilanoAurelio Ambrogio (in latino: Aurelius Ambrosius), meglio conosciuto come sant'Ambrogio (Augusta Treverorum, incerto 339-340 – Milano, 4 aprile 397) è stato un funzionario, vescovo, teologo e santo romano, una delle personalità più importanti nella Chiesa del IV secolo. È venerato come santo da tutte le Chiese cristiane che prevedono il culto dei santi; in particolare, la Chiesa cattolica lo annovera tra i quattro massimi dottori della Chiesa d'Occidente, insieme a san Girolamo, sant'Agostino e san Gregorio I papa.
Fortemente legata all'attività pastorale di Ambrogio fu la sua produzione letteraria, spesso semplice frutto di una raccolta e di una rielaborazione delle sue omelie e che quindi mantengono un tono simile al parlato.Oltre la metà dei suoi scritti è dedicata all'esegesi biblica, che egli affronta seguendo un'interpretazione prevalentemente allegorica e morale del testo sacro (in particolare per quanto riguarda l'Antico Testamento): ad esempio, ama ricercare nei patriarchi e nei personaggi biblici in generale figure di Cristo o esempi di virtù morali. Fu proprio questo metodo di lettura della Bibbia ad affascinare Sant'Agostino e a risultare determinante per la sua conversione (come egli scrisse nelle Confessioni V, 14, 24).Tra le opere esegetiche spiccano l'esauriente commento al Vangelo di Luca (Expositio evangelii secundum Lucam) e l'Exameron (dal greco "sei giorni"). Quest'ultima opera, ispirata ampiamente all'omonimo Exameron di Basilio di Cesarea, raccoglie, in sei libri, nove omelie riguardanti i primi capitoli della Genesi dalla creazione del cielo fino alla creazione dell'uomo. Anche in questo caso, il racconto della creazione è occasione di evidenziare insegnamenti morali desunti dalla natura e dal comportamento degli animali e dalle proprietà delle piante; in questo senso l'uomo appare ad Ambrogio necessariamente legato con tutto il creato dal punto di vista non solo biologico e fisico, ma anche morale e spirituale.

Un altro gruppo significativo consiste nelle opere di argomento morale o ascetico, tra le quali risalta il De officiis ministrorum (talvolta abbreviato in De officiis), un trattato sulla vita cristiana rivolto in particolare al clero ma destinato a tutti i fedeli. L'opera ricalca l'omonimo scritto di Cicerone, che si proponeva come manuale di etica pratica indirizzato al figlio (cui è dedicato) rivolto soprattutto a questioni politico-sociali. Ambrogio riprende il titolo (indirizzando l'opera ai suoi "figli" in senso spirituale, cioè il clero e il popolo di Milano), la struttura (il libro è ripartito in tre libri, dedicati all'honestum, all'utile e al loro contrasto risolto nell'identificazione tra i due) e alcuni elementi contenutistici (tra i quali i principi della morale stoica, come il dominio della razionalità, l'indipendenza dai piaceri e dalla vanità delle cose, la virtù come sommo bene). Questi elementi sono rivisti con originalità in chiave cristiana: agli exempla tratti dalla storia e dalla mitologia classica, Ambrogio sostituisce ad esempio storie ed esempi tratti dalla Bibbia. In generale, è lo stesso orientamento del testo a non essere più etico-filosofico ma prevalentemente religioso e spirituale, come egli spiega fin dall'inizio: «Noi valutiamo il dovere secondo un principio diverso da quello dei filosofi. Essi considerano beni quelli di questa vita, noi addirittura danni» (De officiis, I, 9, 29). Allo stesso modo, le virtù tradizionali vengono rilette cristianamente e accettate alla luce del Vangelo: la fides (lealtà) diventa la fede in Cristo, la prudenza include la devozione verso Dio, esempi di fortezza divengono i martiri. Alle virtù classiche si aggiungono le virtù cristiane: la carità (che già esisteva nel mondo latino, ora assume un significato più interiore e spirituale), l'umiltà, l'attenzione verso i poveri, gli schiavi, le donne.
Altre cinque opere sono dedicate alla verginità, specialmente quella femminile (De virginibus, De viduis, De virginitate, De institutione virginis e Exhortatio virginitatis). Ambrogio esalta la verginità come massimo ideale di vita cristiana, sulla scia della tradizione cristiana da San Paolo («colui che sposa la sua vergine fa bene e chi non la sposa fa meglio», 1 Cor 7,38) fino al contemporaneo Girolamo, senza tuttavia negare la validità della vita matrimoniale. La scelta della verginità è ritenuta l'unica vera scelta di emancipazione per la donna dalla vita coniugale, in cui si trova subordinata. Critica aspramente in questo senso il fatto che il matrimonio costituisca solo un contratto economico e sociale, che non lascia spazio alla scelta degli sposi e in particolare della donna: «Davvero degna di compianto è la condizione che impone alla donna, per sposarsi, di essere messa all'asta come una sorta di schiavo da vendere, perché la compri chi offre il prezzo più alto» (De virginibus, I, 9, 56). Per questo Ambrogio incoraggia i genitori ad accettare la scelta di verginità dei figli e i figli a resistere alle difficoltà imposte dalla famiglia («Se vinci la famiglia, vinci anche il mondo», De virginibus, I, 11, 63).
Sebbene non si possa parlare di una mariologia vera e propria (intesa come pensiero sistematico), sono numerosi nell'opera di Ambrogio i riferimenti a Maria: spesso, quando si presenta l'occasione, egli si rifà alla sua figura e al suo esempio.
La sua venerazione per Maria nasce soprattutto dal ruolo attribuitole nella storia della salvezza. Maria è infatti madre di Cristo, e dunque modello per tutti i credenti che, come lei, sono chiamati a "generare" Cristo:

«Vedi bene che Maria non aveva dubitato, bensì creduto e perciò aveva conseguito il frutto della sua fede. «Beata tu che hai creduto». Ma beati anche voi che avete udito e avete creduto: infatti, ogni anima che crede, concepisce e genera il Verbo di Dio e ne comprende le operazioni. Sia in ciascuno l’anima di Maria a magnificare il Signore, sia in ciascuno lo spirito di Maria ad esultare in Dio: se, secondo la carne, una sola è la madre di Cristo, secondo la fede tutte le anime generano Cristo»
(Esposizione del Vangelo secondo Luca, II, 19. 24-26)

Ambrogio difende strenuamente la verginità di Maria, soprattutto in relazione al mistero di Cristo: egli infatti, proprio perché nato da vergine, non ha contratto il peccato originale. Maria è anche la prima donna a cogliere i "frutti" della venuta di Cristo:

«Non c’è affatto da stupirsi che il Signore, accingendosi a redimere il mondo, abbia iniziato la sua opera proprio da Maria: se per mezzo di lei Dio preparava la salvezza a tutti gli uomini, ella doveva essere la prima a cogliere dal Figlio il frutto della salvezza»
(Esposizione del vangelo secondo Luca, II, 17)

Maria è inoltre modello di virtù morali e cristiane, in primo luogo per le vergini («Nella vita di Maria risplende la bellezza della sua castità e della sua esemplare virtù») ma anche per tutti i fedeli; di lei vengono esaltate la sincerità (la verginità «di mente»), l'umiltà, la prudenza, la laboriosità, l'ascesi.

Sant'Agostino d'Ippona Aurelio Agostino d'Ippona (in latino: Aurelius Augustinus Hipponensis; Tagaste, 13 novembre 354 – Ippona, 28 agosto 430) è stato un filosofo, vescovo e teologo romano di origine nordafricana ed espressione latina.
Conosciuto come sant'Agostino, è Padre, dottore e santo della Chiesa cattolica, detto anche Doctor Gratiae ("Dottore della Grazia"). È stato definito da Monsignor Antonio Livi «il massimo pensatore cristiano del primo millennio e certamente anche uno dei più grandi geni dell'umanità in assoluto». Se le Confessioni sono la sua opera più celebre, si segnala per importanza, nella vastissima produzione agostiniana, La città di Dio.
Agostino, di etnia berbera o punica come egli stesso ci tramanda, ma di cultura fondamentalmente ellenistico-romana, nacque il 13 novembre 354 a Tagaste (attualmente Souk Ahras, in Algeria, situata a circa 70 km a sud-est di Ippona, l'odierna Annaba), che era a quei tempi una piccola città libera della Numidia proconsolare, recentemente convertita al Donatismo.Apparteneva a una famiglia del ceto medio, ma non facoltosa.
Per comprendere la dottrina di Agostino non si può prescindere dal suo vissuto esistenziale: trovandosi a sperimentare un insanabile dissidio tra la ragione e il sentimento, lo spirito e la carne, il pensiero pagano e la fede cristiana, la sua filosofia consistette nel tentativo grandioso di riconciliarli e tenerli uniti. Fu proprio l'insoddisfazione per quelle dottrine che predicavano una rigida separazione tra bene e male, luce e tenebre, a spingerlo ad abbandonare il manicheismo e a subire l'influsso dello stoicismo e soprattutto del neoplatonismo, i quali viceversa riconducevano il dualismo in unità.
Recependo il pensiero di Platone filtrato attraverso quello di Plotino, Agostino rielaborò così la dottrina delle idee, o quella emanatistica dell'Uno, sulla base della concezione trinitaria del Dio cristiano, che è insieme Sapienza, Potenza, e Volontà d'amore. Essendo Dio principio unico e assoluto dell'Essere, non può esistere un principio a Lui contrapposto, per cui il male è soltanto "assenza", privazione del Bene, imputabile unicamente alla disobbedienza umana. A causa del peccato originale nessun uomo è degno della salvezza, ma Dio può scegliere in anticipo chi salvare, tramite il ricorso alla grazia, che sola consente alla nostra anima di ricevere l'illuminazione. Ciò non toglie comunque che noi possediamo un libero arbitrio.
A differenza della filosofia greca, però, dove la lotta tra bene e male non prevedeva un esito escatologico, Agostino ebbe presente come questa lotta si svolge soprattutto nella storia. Ciò condusse a una riabilitazione della dimensione terrena rispetto al giudizio negativo che ne aveva dato il platonismo: ora anche il mondo e gli enti corporei hanno valore e significato, in quanto frutti dell'amore di Dio. Si tratta di un Dio vivo e Personale, che sceglie di entrare nella storia umana, e il cui amore infinito (agàpe) è la risposta all'ansia di conoscenza, tipica dell'eros greco, che l'uomo prova per Lui.

San Girolamo : Sofronio Eusebio Girolamo (in latino: Sofronius Eusebius Hieronymus), noto come san Girolamo, san Gerolamo o san Geronimo, (Stridone, 347 – Betlemme, 30 settembre 419/420) è stato un biblista, traduttore, teologo e monaco cristiano romano.
Padre e dottore della Chiesa, tradusse in latino parte dell'Antico Testamento greco (ci sono giunti, integri o frammentari, Giobbe, Salmi, Proverbi, Ecclesiaste e Cantico, dalla versione dei Settanta) e, successivamente, l'intera Scrittura ebraica.
La Vulgata, prima traduzione completa in lingua latina della Bibbia, rappresenta lo sforzo più impegnativo affrontato da Girolamo. Nel 382, su incarico di papa Damaso I, affrontò il compito di rivedere la traduzione dei Vangeli e successivamente, nel 390, passò all'antico testamento in ebraico, concludendo l'opera dopo ben 23 anni. Nelle Quaestiones hebraicae in Genesim, composte a sostegno della sua attività pluridecennale, anzi, si confronta il testo della Genesi nella traduzione Vetus latina con il testo ebraico a lui accessibile e con la LXX a giustificazione delle scelte operate nella Vulgata.
Il testo di Girolamo è stato la base per molte delle successive traduzioni della Bibbia, fino al XX secolo, quando per l'antico testamento si è cominciato ad utilizzare direttamente il testo masoretico ebraico e la Septuaginta, mentre per il Nuovo Testamento si sono utilizzati direttamente i testi greci. Dalla Vulgata sono tratte le pericopi per l'epistola e il Vangelo della Messa tridentina.
Girolamo fu un celebre studioso del latino in un'epoca in cui questo implicava una perfetta conoscenza del greco. Fu battezzato all'età di venticinque anni e divenne sacerdote a trentotto anni. Quando cominciò la sua opera di traduzione non aveva grandi conoscenze dell'ebraico, perciò si trasferì a Betlemme per perfezionarne lo studio.
Girolamo utilizzò un concetto moderno di traduzione che attirò le accuse da parte dei suoi contemporanei; in una lettera indirizzata a Pammachio, genero della nobildonna romana Paola, scrisse:

«Io, infatti, non solo ammetto, ma proclamo liberamente che nel tradurre i testi greci, a parte le Sacre Scritture, dove anche l'ordine delle parole è un mistero, non rendo la parola con la parola, ma il senso con il senso. Ho come maestro di questo procedimento Cicerone, che tradusse il Protagora di Platone, l'Economico di Senofonte e le due bellissime orazioni che Eschine e Demostene scrissero l'uno contro l'altro […]. Anche Orazio poi, uomo acuto e dotto, nell'Ars poetica dà questi stessi precetti al traduttore colto: "Non ti curerai di rendere parola per parola, come un traduttore fedele"»
(Epistulae 57, 5, trad. R. Palla)

Il De Viris Illustribus, scritto nel 392, intendeva emulare le "Vite" svetoniane dimostrando come la nuova letteratura cristiana fosse in grado di porsi sullo stesso piano delle opere classiche. In esso sono presentate le biografie di 135 autori in prevalenza cristiani (ortodossi ed eterodossi), ma anche ebrei e pagani, che però hanno avuto a che fare con il cristianesimo, con uno scopo dichiaratamente apologetico:

«Sappiano Celso, Porfirio, Giuliano, questi cani arrabbiati contro Cristo, così come i loro seguaci che pensano che la Chiesa non ha mai avuto oratori, filosofi e colti dottori, sappiano quali uomini di valore l'hanno fondata, edificata, illustrata, e cessino le loro accuse sommarie di semplicità rozza rivolte alla nostra fede, e riconoscano piuttosto la loro ignoranza»
(Prologo, 14)

Le biografie hanno inizio da Pietro apostolo e terminano allo stesso Girolamo ma, mentre nelle successive Girolamo elabora conoscenze personali, le prime 78 sono frutto di conoscenze di seconda mano, desunte da varie fonti, tra cui Eusebio di Cesarea.

San Tommaso d'Aquino : Tommaso d'Aquino (Roccasecca, 1225 – Abbazia di Fossanova, 7 marzo 1274) è stato un religioso, teologo, filosofo e accademico italiano. Frate domenicano esponente della Scolastica, era definito Doctor Angelicus dai suoi contemporanei. È venerato come santo dalla Chiesa cattolica che dal 1567 lo considera anche dottore della Chiesa.
Tommaso rappresenta uno dei principali pilastri teologici e filosofici della Chiesa cattolica: egli è anche il punto di raccordo fra la cristianità e la filosofia classica, che ha i suoi fondamenti e maestri in Socrate, Platone e Aristotele, e poi passati attraverso il periodo ellenistico, specialmente in autori come Plotino. Fu allievo di sant'Alberto Magno, che lo difese quando i compagni lo chiamavano "il bue muto" dicendo: «Ah! Voi lo chiamate il bue muto! Io vi dico, quando questo bue muggirà, i suoi muggiti si udranno da un'estremità all'altra della terra!».
L'importanza del pensiero di Tommaso nella tradizione cattolica e nella storia della filosofia si fonda sulla sistemazione, da lui operata, di un intero patrimonio culturale. Servendosi del pensiero di Aristotele, adeguatamente cristianizzato dall'interno, Tommaso poté fornire un ordine di risposte chiare e definitorie alla filosofia. Uno dei suoi intenti primari (e ciò aveva già precedenti nella scolastica) era l'accordo tra teologia e filosofia, rivelazione e ragione. Mediante lo spirito stesso dell'aristotelismo Tommaso volle fornire agli interrogativi primi dell'uomo risposte che sul piano della ragione naturale si accordassero con i dati della rivelazione. Contro ogni spiritualismo platonico e mistico che poteva portare a confondere i due piani distinguendo la teologia, come riflessione sul discorso fatto da Dio all'uomo, dalla filosofia, come sforzo umano di conoscere la verità, fissò in definizioni le risposte che la ragione umana con le sue forze poteva, secondo lui, attingere. Per Tommaso infatti la filosofia non può oltrepassare il campo naturale. Al di là delle verità che la filosofia può dimostrare (per esempio che Dio esiste, che è uno, eterno ecc.), ci sono verità che si possono credere per fede e mai dimostrare, sebbene si possa dimostrare la loro non contraddittorietà intrinseca: per esempio che il mondo non sia eterno, che Dio sia uno e trino ecc. La filosofia è ancilla theologiae. Lo spirito stesso dell'aristotelismo è in Tommaso: anzitutto assegna alla filosofia un compito scientifico, dimostrativo; quindi opera secondo distinzioni e categorie logiche, dove tutto è determinato in base al principio di contraddizione e nessuno spazio è lasciato a un'esperienza immediata e naturale della natura divina. Come è chiaro, proprio l'aristotelismo, prima che una filosofia, è per Tommaso la possibilità di sistemare una volta per tutte razionalmente le cose che vanno considerate vere in accordo con la teologia cattolica. Se ancora Agostino, da speculativo e platonico, poteva dire che Dio è in tutte le cose, che è il più intimo dell'anima, dove il concetto di trascendenza non poteva avere una consistenza logico-razionale; se la tradizione mistica insisteva sull'uomo immagine di Dio, il cui essere è nulla in sé, poiché l'unico essere è Dio, l'esemplare che si riflette nell'immaginee la costituisce; Tommaso, servendosi di Aristotele, stabilisce anzitutto la logica della trascendenza e della distinzione dell'essere di Dio da quello della creatura. Il suo termine è quello di analogia. Egli sostiene che non c'è identità di essere tra Dio e la creatura, ma neppure alterità totale, poiché è Dio che dà l'essere alla creatura. Tommaso compì l'opera razionalistica dell'individuazione di uno spazio proprio, naturale, della creatura. Sarà sufficiente considerare la trascendenza come mera cornice e ulteriorità rispetto alla consistenza naturale dell'uomo, perché si abbia quella prospettiva che sarà propria di tanta filosofia cattolica medievale e moderna. Orbene, proprio fondandosi sui concetti aristotelici di essenza ed esistenza, adeguatamente riformati, Tommaso stabilisce chiaramente quello che è il principio basilare del suo sistema, la distinzione reale di essenza ed esistenza, dal quale principio deriva netta la distinzione ontologica di Dio dalla creatura. È un tema che Avicenna aveva introdotto, ma Tommaso se ne serve in modo radicale. Avicenna aveva distinto l'essere necessario di Dio dall'essere contingente della creatura, ma aveva concepito l'esistenza, che in Dio è identica all'essenza, come accidentale nelle creature, dove l'essenza è partecipata. Di qui il platonismo emanatistico che Tommaso vuole sopprimere. Aristotele aveva spiegato l'essere in termini di potenza e atto, materia e forma, facendo corrispondere a questi termini quelli di essenza ed esistenza. L'atto è l'essere; più un ente è, più è in atto; Dio è atto puro, pura forma senza materia. L'essenza è in atto quando è, quando esiste. Tutti gli enti dopo Dio, non essendo atto puro, sono potenza, materia, essenza, che passa all'atto, alla forma, alla sussistenza. Ma per Aristotele l'esistenza, l'atto non è altro che la forma, l'essenza stessa che sussiste. Dio è la purezza di questo atto, gli enti dopo di lui sono del pari sostanze, ma nelle quali l'atto viene all'esistenza, vale a dire è accolto da una possibilità di essere, che è una informità, una materia. Qui interviene Tommaso con il principio scolastico della distinzione reale tra essenza ed esistenza. Nella creatura l'essenza è il quo est, ciò per cui sono quel che sono, ma il loro sussistere, il loro atto, è il gesto creatore di Dio. Per Tommaso essenza e potenza coincidono; l'atto è invece l'esistenza che si aggiunge ed è la creazione fuori di Dio. Dio che è atto puro, è ens per se subsistens, essenza implicante l'esistenza; la creatura è composizione di essenza ed esistenza. Al quo est si aggiunge il quod est, il fatto che sono, e che non dipende dalla loro quiddità, ma dalla messa in opera divina, che produce l'ente, facendo della quiddità, pura potenzialità, una forma esistente. La forma, l'identità della creatura, sorge realmente con l'esistenza che determina la quiddità a questo e a quello. Per cui la materia è principio d'individuazione solo per le creature corporee; non la materia come loro quiddità (natura corporea) ma la materia quantitate signata, che è l'esistenza di questo o quel corpo determinato. Nelle creature spirituali invece non c'è materia; l'individuazione è il puro crearne l'esistenza. Così per Tommaso forma e materia non corrispondono a essenza ed esistenza, ma sono entrambe l'essenza di quelle creature che oltre a una natura spirituale (anima) hanno una natura corporea. Essenza che richiede ancora un'esistenza. In tal modo la separazione dell'essere di Dio da quello della creatura è stabilita e con essa la trascendenza. Da Aristotele ancora Tommaso trae la sua gnoseologia, che s'incentra sul tema dell'astrazione. Conoscere è astrarre l'universale, la specie, la quiddità delle cose. L'universale è ante rem in Dio, in re come costitutivo dell'ente, post rem nell'intelletto che lo astrae. È questo il realismo scolastico che Tommaso svolge affermando che l'universale come tale non è in atto nell'ente, perché esiste solo l'individuo, non la specie. L'universale è in atto nell'intelletto quando lo conosce. La conoscenza è allora adeguazione dell'intelletto e della cosa.
L'intelletto è intelligibilità, è solo possibile, come intendeva Aristotele, e passa in atto, è intelligenza, quando accoglie le specie. Per Tommaso dunque l'intelletto può conoscere l'essere in sé; anzi a questo è destinato, ma l'intelletto umano, legato al corpo come anima, non può accogliere le specie se non servendosi dei dati della sensibilità, dai quali astrae le quiddità. Per questo può conoscere solo le quiddità che cadono sotto i sensi. E qui Tommaso distingue nettamente il campo della ragione naturale: essa conosce perfettamente le quiddità del mondo; ciò che la supera sfugge alla dimostrabilità, all'evidenza, alla conoscenza. Perciò di ciò che supera l'uomo non abbiamo secondo Tommaso che un'imperfetta notizia, la quale riguarda solo il fatto dell'esistenza. Di Dio infatti possiamo dimostrare che esiste, partendo da ciò che il mondo ci fa vedere, ma non possiamo dire nulla sulla sua natura. Ciò che diciamo di questa è teologia, discorso che facciamo su Dio, perché è Dio che l'ha fatto a noi, rivelando qualcosa di sé. La ragione può solo trovare che ciò che è per fede non le è contrario, ma possibile. A proposito dell'esistenza di Dio Tommaso riprende appunto le vie aristoteliche: argomentando sul movimento risaliamo a un motore primo che non è mosso da altro; argomentando sugli effetti e le cause, a una causa prima; ragionando sulla contingenza, all'essere necessario; argomentando sulla perfezione degli enti, all'ente perfettissimo; argomentando sul fine di ogni cosa, al fine assoluto. La definizione che Tommaso dà dell'uomo è aristotelica: l'uomo ha una forma, che è l'anima, e una materia, che è il corpo. L'intelletto come virtù superiore dell'anima è così legato al corpo, col quale compone un ente unico. Da Aristotele tuttavia Tommaso dissente quando afferma che le tre virtù, vegetativa, sensitiva, intellettiva, dell'anima non sono nell'uomo tre principi distinti, ma quella intellettiva superiore esercita anche le altre due inferiori. Qui è intervenuta l'esigenza cristiana di fondare l'anima come principio sostanziale unico, cosicché possa essere salvaguardata la fede nell'immortalità, la sopravvivenza al corpo, l'indipendenza ontologica rispetto al corpo. Conseguentemente alla distinzione tra piano soprannaturale e piano naturale, l'etica di Tommaso comprende una parte naturale, vale a dire un ordine di principi pratici che risiede già nella natura razionale dell'uomo, indipendentemente dall'ordine teologico che si aggiunge mediante la grazia. La caduta non ha cancellato né l'esistenza di tali principi nella ragione, per cui l'uomo sa cosa è bene e cosa è male, né la disposizione della volontà a seguire i principi pratici evidenti di per sé. Nella ragione è impressa la legge naturale. La caduta non ha tolto la natura ma l'ha solo inficiata, per cui occorre la grazia che la risollevi. Tale risollevamento nella fede, nella speranza, nella carità, desta la natura stessa; dice Tommaso: “la grazia non distrugge ma perfeziona la natura”. La forte inclinazione che Tommaso possiede a considerare buono tutto ciò che è naturale lo porta a estendere il suo interesse su ogni ambito dell'uomo. Il suo talento classificatorio, la sua capacità di operare distinzioni su distinzioni lo conducono per un verso a differenziare tutti questi ambiti, per l'altro ad analizzarli uno dopo l'altro. L'influenza del suo pensiero è stata tanto vasta da generare una vera e propria corrente filosofica, il tomismo.

San Giovanni Crisostomo Giovanni Crisostomo, (Antiochia di Siria, 344/354 – Comana Pontica, 14 settembre 407), è stato un vescovo e teologo greco antico. Fu arcivescovo di Costantinopoli. È commemorato come santo dalla Chiesa cattolica e dalla Chiesa ortodossa e venerato dalla Chiesa copta; è uno dei 36 Dottori della Chiesa Cattolica.
La sua eloquenza, le sue doti retoriche nell'omiletica gli valsero successivamente l'epiteto Crisostomo (in greco antico: χρυσόστομος, chrysóstomos), letteralmente «bocca d'oro». Il suo zelo e il suo rigore furono causa di forti opposizioni alla sua persona. Dovette subire un doppio esilio e durante un trasferimento morì.
Come filosofo e teologo, Giovanni è poco originale ma riecheggia - e trasferisce efficacemente nell'omiletica - temi della tradizione patristica greca e soprattutto della scuola antiochena. La sua personalità è quella di un uomo innamorato della morale, vissuta come "amore in atto", desideroso di riformare la vita cristiana, secondo l'ideale delle primitive comunità cristiane concepite nello schema del cenobitismo.
Giovanni si adoperò nell'intento di moralizzare il clero di Costantinopoli, criticando i suoi eccessi e il suo stile di vita. I suoi sforzi cozzarono contro una forte resistenza e quindi furono limitati e provvisori. Era un eccellente predicatore e come teologo ebbe notevole stima nella cristianità dell'oriente. Contrariamente al costume diffuso dell'epoca, di parlare per allegorie, adottò uno stile diretto utilizzando i passi biblici come lezioni e ammaestramento nella vita di tutti i giorni.
La sua messa al bando fu una dimostrazione sia della supremazia del potere secolare sia della rivalità tra Costantinopoli ed Alessandria nella lotta per la preminenza nella chiesa d'oriente dell'epoca. La rivalità suddetta creò grossi problemi religiosi e politici all'impero e fu una delle cause della perdita dell'Egitto. Al contrario, in occidente la superiorità spirituale di Roma era già un fatto indiscusso nel V secolo ma - per i disordini e gli eventi bellici che avevano fatto dell'occidente una terra economicamente povera, spopolata e in grave crisi - il peso "politico" verso gli imperatori d'Oriente era in generale diminuito. Un esempio dello scarso peso della chiesa occidentale presso l'impero orientale di allora è dato dal fatto che le proteste di papa Innocenzo, che difendeva il Crisostomo, vennero tranquillamente ignorate.

San Basilio Magno : il Grande; in greco: Βασίλειος ὁ Μέγας, Basíleios ho Mégas; in latino Basilius Magnus (Cesarea in Cappadocia, 329 – Cesarea in Cappadocia, 1º gennaio 379), è stato un vescovo e teologo greco antico, venerato dalle Chiese cristiane; porta anche i titoli di confessore e Dottore della Chiesa. È considerato il primo dei Padri cappadoci. Era figlio di un ricco retore e avvocato, mentre suo nonno, che fu discepolo di Gregorio Taumaturgo del Ponto, morì martire nella persecuzione di Diocleziano. Sua nonna Macrina, la madre Emmelia, i fratelli Gregorio (vescovo di Nissa) e Pietro (vescovo di Sebaste) e la sorella primogenita, Macrina, sono pure venerati dalla Chiesa cattolica come santi. Fu molto amico di Gregorio Nazianzeno, venerato come santo e commemorato nello stesso giorno, il 2 gennaio. Ha scritto la regola che ancora oggi ispira la vita dei Monaci basiliani.
Scrisse molte opere di carattere dogmatico, ascetico, discorsi ed omelie, oltre a un trattato per i giovani sull'uso e il comportamento da tenersi nello studio dei classici pagani, e moltissime lettere sui più svariati argomenti. Scrisse anche l'antologia origenia
na "Filocalia" e un trattato sullo Spirito Santo in cui affermava la consustanzialità delle tre Persone della Trinità.
Tra le opere di Basilio, decisive nel dibattito teologico del IV secolo sulla Trinità, bisogna almeno ricordare Contro Eunomio, diretta contro l'Apologia di Eunomio contenente proposizioni considerate eretiche, e Lo Spirito Santo, indicante la divinità della terza persona trinitaria. Conserviamo di lui anche lettere ed omelie, specie quelle trattanti i sei giorni della creazione (Omelie sull'Esamerone). Il suo Asceticon, rappresenta una tappa cruciale nella storia del monachesimo e della spiritualità cristiane.
Le confutazioni di Basilio sul manicheismo contenute nella Piccola Asketikon furono tradotte in latino da Tirannio Rufino nel IV secolo.
Basilio, vissuto alla fine dell'era delle persecuzioni, detiene un posto di grande importanza nella storia della liturgia cristiana. I riti della Chiesa che prima erano affidati alla memoria e alla estemporaneità iniziarono a strutturarsi, la liturgia iniziò ad essere influenzata da brevi rituali. L'influenza di Basilio in questi rituali è ben attestata nelle fonti. Restano dubbi su quali parti della Divina Liturgia di Basilio Magno siano state composte o riviste da lui e quali si ispirano alle sue opere.
Le attuali liturgie delle Chiese cristiane che portano il nome di Basilio non sono interamente frutto del suo lavoro, nella forma attuale, ma conservano comunque un richiamo all'attività di Basilio, che ne formulò le iniziali formule liturgiche e il canto degli inni. Gli studiosi di patristica riconoscono che l'attuale liturgia di Basilio «porta inconfondibile la traccia della sua penna, della sua mente e del suo cuore».
L'anafora della Divina Liturgia di Basilio Magno bizantina è più lunga di quella della più comune Divina liturgia di Giovanni Crisostomo: una chiara differenza si trova per esempio nella preghiera silenziosa del sacerdote e nell'uso dell'inno della Theotókos con Tutta la creazione invece della Axion Estini di Giovanni Crisostomo. La liturgia di Crisostomo rimpiazzò quella di Basilio nella messa giornaliera del rito bizantino della Chiesa Ortodossa. La liturgia di Basilio si usa ancora nelle domeniche di Quaresima, nella liturgia del Giovedì e Sabato Santo, nelle domeniche di Avvento e il giorno della sua festa, il 1º gennaio per le chiese d'oriente.Con il suo esempio e i suoi insegnamenti Basilio esercitò una notevole influenza nella vita monastica del tempo, moderando l'austerità che fino ad allora aveva caratterizzato la vita monastica. Fornì anche un grande contributo nel coordinare le attività di lavoro e quelle di preghiera per assicurarne un più equilibrato ritmo nella giornata del monaco.
Basilio è tra le più influenti figure che hanno dato sviluppo al monachesimo nella cristianità. Non solo è riconosciuto come il padre del monachesimo orientale; ma gli storici gli attribuiscono anche una grande importanza per lo sviluppo di quello occidentale, in particolare per l'influsso che ebbe su San Benedetto. Benedetto stesso ne riconosce l'importanza quando nella sua "Regola" chiede ai monaci di leggere oltre che la Bibbia anche i Padri della Chiesa e la vita e la «Regola del nostro Santo Padre, Basilio». A riprova di questa influenza restano i molti ordini religiosi della Chiesa orientale che si rifanno ancora alla sua regola o che portano il suo nome, nell'ambito della chiesa latina si annovera un istituto religioso fondato nel XVIII secolo in Francia, i Preti di San Basilio.

Gregorio Nazianzeno : anche Gregorio il Teologo (in latino: Gregorius Nazianzenus, in greco Γρηγόριος ὁ Ναζιανζηνός, Grēgórios ho Nazianzēnós; 329 – 390 circa), è stato un vescovo e teologo greco antico; fu maestro di san Girolamo. Venerato dalle Chiese cristiane, è riconosciuto dalla Chiesa cattolica come Dottore e Padre della Chiesa. È uno dei Padri cappadoci.
In campo dottrinale il suo apporto maggiore riguarda l'approfondimento della terza Persona della Trinità: lo Spirito Santo. Proclama che lo Spirito Santo è Dio, consostanziale proprio come il Figlio. Per spiegare la differenza che intercorre tra la generazione del Figlio e il modo di esistenza dello Spirito Santo Gregorio introduce il termine processione (ekporeusis, in Discorsi, 39, 12).

Commentando Gv 15,26 precisa che:

« Lo Spirito Santo in quanto procede dal Padre, non è una creatura; in quanto non è generato non è Figlio; ma in tanto che è l' intermedio tra l'ingenerato e il generato, egli è Dio »
(ibid. 31,8)

Nella consostanzialità Gregorio insiste sulla monarchia del Padre. Per illustrare i rapporti tra le persone divine, Gregorio usa diverse similitudini: della sorgente, del ruscello, del fiume, del sole, del raggio, della luce, dimostrando una buona conoscenza delle figure retoriche.
Egli sottolinea l'incapacità umana di precisare fino in fondo la natura delle processioni, anche se è Cristo stesso che ne definisce i termini: il Padre è aghennetos, ossia ingenerato il Figlio è ghennetos, generato e lo Spirito Santo non esce per generazione o filiazione ma per processione (ekporeusis).
Nella trattazione del tema trinitario si avverte in Gregorio come negli altri Padri cappadoci oltre alla preoccupazione teologica, quella pastorale, preoccupazione che lo rende attento a evitare sottigliezze, teorie complicate, ragionamenti difficili. Egli raccomanda ai pastori di"essere semplici... e il modo di parlare sia appropriato e utile a tutti" (Discorsi, 2,44). La stessa raccomandazione la rivolge a chi vuole essere teologo. Nel Discorso 27 (il primo dei teologici) afferma: "Il grande mistero della fede cristiana non deve diventare oggetto di abili artifici" ma deve essere "argomento di seria e continua meditazione in un clima di preghiera".
Ciò che Gregorio sconsiglia al teologo non è la libera ricerca, ma la libera diffusione delle proprie idee, diffusione che può creare scandalo e divisione tra i fedeli. Un'altra qualità che raccomanda al teologo è l'amore per la pace e per l'unità della Chiesa. Egli è convinto che il fondamento della pace sia l'ortodossia e che l'essenziale dell'ortodossia stia nella "semplice fede".

Sant'Atanasio d'Alessandria : il Grande (latino: Athanasius; greco: Ἀθανάσιος, Athanásios; Alessandria d'Egitto, 295; † Alessandria d'Egitto, 2 maggio 373) è padre e dottore della Chiesa. Fu patriarca di Alessandria. Lottò strenuamente per difendere la dottrina cattolica contro l'eresia ariana.
Atanasio nacque ad Alessandria d'Egitto alla fine del III secolo nel momento in cui stavano terminando le ultime grandi persecuzioni da parte dell'Impero romano e qualche anno prima dell'adozione da parte dello stesso impero del cristianesimo come religione ufficiale. Crebbe in questa città che, tra le tre più grandi città del mondo antico, era sicuramente la più turbolenta e la più ricca culturalmente: vi erano presenti, oltre a una consistente scuola cristiana tradizionale, anche molti cristiani considerati eretici, gnostici, nestoriani e numerosi i pagani, tra cui i devoti del dio Serapide.
La vita di Atanasio fu indissolubilmente legata al grande sforzo che la Chiesa cattolica dovette sostenere in quegli anni per definire la Trinità di Dio.
Ancora diacono accompagnò il suo vescovo Alessandro al Concilio di Nicea del 325, voluto dall'imperatore Costantino I per dirimere la questione sollevata dalla predicazione di Ario, anch'egli di Alessandria, circa la natura di Cristo. Con il termine in greco ὁμοούσιος (homoousios, consostanziale), in quel Concilio, si affermava in modo chiaro la perfetta uguaglianza del Verbo e del Padre, Verbo considerato dalla Chiesa cattolica "generato" e non "creato", in netta antitesi al pensiero di Ario che predicava invece la creazione del Verbo da Dio e quindi la negazione della divinità del Cristo.
Ecco le parole con cui Atanasio affronta questo tema:
Il Verbo di Dio, immateriale e privo di sostanza corruttibile, si stabilì tra noi, anche se prima non ne era lontano. Nessuna regione dell'universo infatti fu mai priva di lui, perché esistendo insieme col Padre suo, riempiva ogni realtà della sua presenza. Venne dunque per amore verso di noi e si mostrò a noi in modo sensibile. Preso da compassione per il genere umano e la nostra infermità e mosso dalla nostra miseria, non volle rimanessimo vittime della morte. Non volle che quanto era stato creato andasse perduto che l'opera creatrice del Padre nei confronti dell'umanità fosse vanificata. Per questo prese egli stesso un corpo, e un corpo uguale al nostro perché egli non volle semplicemente abitare un corpo o soltanto sembrare un uomo. Se infatti avesse voluto soltanto apparire uomo, avrebbe potuto scegliere un corpo migliore. Invece scelse proprio il nostro. Egli stesso si costruì nella Vergine un tempio, cioè il corpo e, abitando in esso, ne fece un elemento per potersi rendere manifesto. Prese un corpo soggetto, come quello nostro, alla caducità e, nel suo immenso amore, lo offrì al Padre accettando la morte. Così annullò la legge della morte in tutti coloro che sarebbero morti in comunione con lui. Avvenne che la morte, colpendo lui, nel suo sforzo si esaurì completamente, perdendo ogni possibilità di nuocere ad altri. Gli uomini ricaduti nella mortalità furono resi da lui immortali e ricondotti dalla morte alla vita. Infatti in virtù del corpo che aveva assunto e della risurrezione che aveva conseguito distrusse la morte come fa il fuoco con una fogliolina secca. Egli dunque prese un corpo mortale perché questo, reso partecipe del Verbo sovrano, potesse soddisfare alla morte per tutti. Il corpo assunto, perché inabitato dal Verbo, divenne immortale e mediante la risurrezione, rimedio di immortalità per noi. Offrì alla morte in sacrificio e vittima purissima il corpo che aveva preso e offrendo il suo corpo per gli altri liberò dalla morte i suoi simili. Il Verbo di Dio a tutti superiore offrì e consacrò per tutti il tempio del suo corpo e versò alla morte il prezzo che le era dovuto. In tal modo l'immortale Figlio di Dio con tutti solidale per il comune corpo di morte con la promessa della risurrezione rese immortali tutti a titolo di giustizia. La morte ormai non ha più nessuna efficacia sugli uomini per merito del Verbo, che ha posto in essi la sua dimora mediante un corpo identico al loro. »
(Discorso sull'incarnazione del Verbo, 8-9; PG 25, 110-111)

Atanasio fu per tutta la vita testimone e strenuo difensore di questo principio. A causa di questa sua testimonianza dovette subire almeno cinque esili negli anni che vanno dalla sua nomina a Vescovo e Patriarca di Alessandria d'Egitto nel 328, appena trentenne, al 362. Oltre a questi, fu vittima di intrighi e calunnie di ogni genere e per un certo tempo venne persino abbandonato dal Papa, anch'esso vittima di intrighi orchestrati e imposti dall'imperatore. Per questo viene ricordato dalle Chiese cattolica, ortodossa e copta come Athanasius contra mundum ("Atanasio contro il mondo"), per la sua incrollabile fedeltà a questi principi di fronte a tutto e a tutti.



San Leone I papa: detto anche Leone Magno (Toscana, 390 circa – Roma, 10 novembre 461), è stato il 45º vescovo di Roma e Papa della Chiesa cattolica. È venerato come santo dalla Chiesa cattolica e dalla Chiesa ortodossa. Il suo pontificato va dal 29 settembre 440 alla sua morte.
Il pontificato di Leone, come quello di Gregorio I, fu il più significativo e importante dell'antichità cristiana. In un periodo in cui la Chiesa stava sperimentando grandi ostacoli al suo progresso in conseguenza della rapida disintegrazione dell'Impero romano d'Occidente, mentre l'oriente era profondamente agitato da controversie dogmatiche, questo papa guidò il destino della Chiesa romana.
L'intento principale di Leone era quello di sostenere l'unità della Chiesa. Non molto dopo la sua elevazione alla cattedra di Pietro, si vide costretto a combattere energicamente le eresie che minacciavano seriamente l'ortodossia della chiesa, persino di quella occidentale. Settimo, vescovo di Altino, informò Leone di quanto stava accadendo ad Aquileia, dove presbiteri, diaconi, e chierici che erano stati seguaci di Pelagio venivano ammessi alla comunione senza un'abiura esplicita della loro posizione. Il Papa criticò aspramente questa prassi ed ordinò che venisse convocato un sinodo provinciale ad Aquileia. Di fronte a tale consesso, tutti coloro che erano stati pelagiani avrebbero dovuto abiurare pubblicamente le loro vecchie credenze ed avrebbero dovuto sottoscrivere una inequivocabile confessione di fede.
Leone intraprese una lotta ancora più grande contro il Manicheismo. I manichei erano fuggiti dall'Africa invasa dai Vandali, si erano stabiliti a Roma, e vi avevano fondato una comunità segreta. Il Papa ordinò ai fedeli di denunciarli ai presbiteri e, nel 443, insieme ai senatori ed ai presbiteri stessi, istruì di persona un'inchiesta, nel corso della quale furono esaminati i capi di questa comunità. In molti dei suoi sermoni esortò, con grande enfasi, i cristiani di Roma affinché stessero in guardia contro questa che la Chiesa ortodossa considerava un'eresia, e li incaricò ripetutamente di dare informazioni sui seguaci, le loro abitazioni, i loro simpatizzanti, ed i loro appuntamenti.
La disorganizzatissima condizione ecclesiastica di alcuni paesi, risultante soprattutto da fenomeni di migrazioni nazionali, obbligò relazioni più strette tra quegli episcopati e Roma per una migliore promozione della vita ecclesiastica. Leone, con questo obiettivo bene in vista decise di utilizzare il vicariato papale dei vescovi di Arles per la provincia di Gallia per creare un centro di aggregazione dell'episcopato gallico in stretta comunione con Roma.
Nella concezione leonina dei doveri di pastore supremo, occupava una posizione preminente la conservazione della stretta disciplina ecclesiastica. Ciò era particolarmente importante in un periodo in cui le continue devastazioni dei barbari portavano disordini in tutti gli aspetti della vita e le regole della moralità venivano seriamente violate. Leone usò la massima energia nel mantenimento di questa disciplina, insistette sull'esatta osservanza dei precetti ecclesiastici e non esitò a rimproverare, quando necessario, i vescovi. Lettere (ep. XVII) relative a questa ed altre questioni vennero inviate ai vari vescovi dell'Impero d'Occidente: ai vescovi delle province italiane (epp. IV, XIX, CLXVI e CLXVIII), ed a quelli di Sicilia che avevano tollerato alcune derive dalla Liturgia romana nell'amministrazione del Battesimo (ep. XVI e XVII) ed ai quali comandò di inviare dei delegati presso un sinodo romano per verificare la corretta pratica. Un decreto disciplinare molto importante fu inviato anche al vescovo Rustico di Narbona (ep. CLXVII). A causa del dominio dei Vandali nel nord Africa latino, la posizione della Chiesa in quei territori era divenuta del tutto sconosciuta.

San Bernardo di Chiaravalle : Terzo di sette fratelli, nacque da Tescelino il Sauro, vassallo di Oddone I di Borgogna, e da Aletta, figlia di Bernardo di Montbard, anch'egli vassallo del duca di Borgogna. Studiò solo grammatica e retorica (non tutte le sette arti liberali, dunque) nella scuola dei canonici di Nôtre Dame di Saint-Vorles, presso Châtillon-sur-Seine, dove la famiglia aveva dei possedimenti. La casa natale di Bernardo di ChiaravalleRitornato nel castello paterno di Fontaines, nel 1111, insieme ai cinque fratelli e ad altri parenti e amici, si ritirò nella casa di Châtillon per condurvi una vita di ritiro e di preghiera finché, l'anno seguente, con una trentina di compagni si fece monaco nel convento cistercense di Cîteaux, fondato quindici anni prima da Roberto di Molesmes e allora retto da Stefano Harding. Nel 1115, insieme con dodici compagni, tra i quali erano quattro fratelli, uno zio e un cugino, si trasferì nella proprietà di un parente, nella regione della Champagne, che aveva donato ai monaci un vasto terreno sulle rive del fiume Aube, nella diocesi di Langres perché vi fosse costruito un nuovo convento cistercense: essi chiamarono quella valle Clairvaux, chiara valle. Ottenuta l'approvazione del vescovo Guglielmo di Champeaux e ricevute numerose donazioni, l'abbazia divenne in breve tempo un centro di richiamo oltre che di irradiazione: già dal 1118 monaci di Clairvaux partirono per fondare altrove nuovi conventi, come a Trois-Fontaines, a Fontenay, a Foigny, a Autun, a Laon; si calcola che nell'arco dei primi 40 anni furono sessantotto i conventi fondati da monaci provenienti da Chiaravalle. Nella Lettera 1, spedita verso il 1124 al cugino Roberto, Bernardo mostra di considerare la vita monastica dei benedettini di Cluny, allora all'apogeo del loro sviluppo, come un luogo che negava i valori della povertà, dell'austerità e della santità; egli rifiuta la teoria della regola benedettina della stabilitas - ossia del legame permanente e definitivo che dovrebbe stabilirsi fra monaco e monastero - sostenendo la legittimità del passaggio da un convento cluniacense a uno cistercense, essendovi in quest'ultimo professata una regola più rigorosa e più aderente alla Regola di San Benedetto, pertanto una vita monastica perfetta. La polemica fu da lui ripresa nell' Apologia all'abate Guglielmo, sollecitata da Guglielmo, abate del monastero di Saint-Thierry, che ebbe una risposta dall'abate di Cluny, Pietro il Venerabile, nella quale l'abate rivendicava la legittimità della discrezione nell'interpretazione della regola benedettina. Nel 1130, alla morte di Onorio II, furono eletti due papi: uno, dalla fazione della famiglia romana dei Frangipane, col nome di Innocenzo II e un altro, appoggiato dalla famiglia dei Pierleoni, con il nome di Anacleto II; Bernardo appoggiò attivamente il primo che, nella storia della Chiesa, per quanto eletto da un minor numero di cardinali, sarà riconosciuto come autentico papa, grazie soprattutto all'appoggio dei maggiori regni europei. Numerosi furono i suoi interventi in questioni che riguardavano i comportamenti di ecclesiastici: accusò di scorrettezza Simone, vescovo di Noyon e di simonia Enrico, vescovo di Verdun; nel 1138 favorì l'elezione a vescovo di Langres del proprio cugino Goffredo della Roche-Vanneau, malgrado l'opposizione di Pietro il Venerabile e, nel 1141, ad arcivescovo di Bourges di Pietro della Châtre, mentre l'anno dopo ottenne la sostituzione di Guglielmo di Fitz-Herbert, vescovo di York, con l'amico cistercense Enrico Murdac, abate di Fountaine. Nel 1119 alcuni cavalieri, sotto la guida di Ugo di Payns, feudatario della Champagne e parente di Bernardo, fondarono un nuovo ordine monastico-militare, l'Ordine dei Cavalieri del Tempio, con sede in Gerusalemme, nella spianata ove sorgeva il Tempio ebraico; lo scopo dell'Ordine, posto sotto l'autorità del patriarca di Gerusalemme, era di vigilare sulle strade percorse dai pellegrini cristiani. L'Ordine ottenne nel concilio di Troyes del 1128 l'approvazione di papa Onorio II e sembra che la sua regola sia stata ispirata da Bernardo, il quale scrisse, verso il 1135, l'Elogio della nuova cavalleria (De laude novae militiae ad Milites Templi). L'interesse di Bernardo per le vicende politiche del suo tempo si manifestò anche in occasione dei conflitti che opposero il conte della Champagne, Tibaldo II, da lui sostenuto, al re Luigi VII di Francia e in occasione della repressione, nel 1140, del neonato Comune di Reims, operata dal suo pupillo cistercense, il vescovo Sansone di Mauvoisin. L' Apologia contra Bernardum di AbelardoGrande fu la risonanza del conflitto che oppose Bernardo al filosofo Pietro Abelardo. Nel 1140 Guglielmo di Saint-Thierry, cistercense del convento di Signy, scriveva al vescovo di Chartres, Goffredo di Lèves e a Bernardo, denunciando che due opere di Abelardo, il Liber sententiarum e la Theologia scholarium, contenevano, a suo giudizio, affermazioni teologicamente erronee, elencandole in un proprio scritto, la Discussione contro Pietro Abelardo. Bernardo, senza preoccuparsi di leggere i testi, scrisse a papa Innocenzo II la Lettera 190, sostenendo che Abelardo concepiva la fede una semplice opinione; davanti agli studenti parigini pronunciò il sermone de La conversione, attaccando Abelardo e invitandoli ad abbandonare le sue lezioni. Abelardo reagì chiedendo all'arcivescovo di Sens di organizzare un pubblico confronto con Bernardo, da tenersi il 3 giugno 1140, ma questi, temendo l'abilità dialettica del suo controversista, il giorno prima presentò 19 affermazioni chiaramente eretiche, attribuendole ad Abelardo, chiamando i vescovi presenti a condannarle e invitando il giorno dopo lo stesso Abelardo a pronunciarsi in proposito. Al rifiuto di Abelardo, che abbandonò il concilio, seguì la condanna dei vescovi, ribadita il 16 luglio successivo dal papa. Nel 1144 il monaco  di Steinfeld lo informò di un'eresia, di tipo pauperistico, diffusa in quel di Colonia, alla quale rispose con i Sermoni 63, 64, 65 e 66; l'anno successivo accolse l'invito del cardinale di Ostia, Alberico, a combattere un'eresia diffusa nella regione di Tolosa dal monaco Enrico di Losanna, seguace di Pietro di Bruys, critico nei confronti delle gerarchie ecclesiali e propositore di una vita improntata alla povertà e alla penitenza; in questa occasione, Bernardo ritenne necessario recarsi, insieme con il suo segretario Goffredo d'Auxerre a Tolosa. Ottenuta, dopo molti contrasti, una professione di fede, tornò a Chiaravalle e indirizzò una lettera agli abitanti di Tolosa - la Lettera 242 - nella quale esprimeva la sua convinzione che quelle dottrine fossero state definitivamente confutate. Richiesto ancora di pronunciarsi sulle tesi trinitarie del vescovo di Poitiers e maestro di teologia a Parigi, Gilberto Porretano, nel 1148, nuovamente Bernardo tentò di far approvare da vescovi da lui riuniti a parte, una preventiva condanna che il sinodo da tenere il giorno successivo a Reims avrebbe dovuto semplicemente ratificare; questa volta, tuttavia, i vescovi non appoggiarono la sua iniziativa, tanto che Bernardo dovette cercare appoggio da papa Eugenio III. La difesa di Gilberto - che affermò di non aver mai sostenuto le tesi a lui contestate, frutto, a suo dire, di interpretazioni erronee dei suoi studenti - fece cadere ogni accusa. Il 15 febbraio 1145, a Roma, nel convento di san Cesario, sul Palatino, il conclave eleggeva nuovo papa Eugenio III, abate del convento romano dei Ss Vincenzo e Anastasio; il nuovo papa, Bernardo Paganelli, conosceva bene Bernardo, per averlo incontrato nel concilio di Pisa del 1135 e per essersi ordinato cistercense proprio a Chiaravalle nel 1138. Bernardo, felicitandosi per l'elezione, gli ricordava curiosamente che si diceva «che non siete voi a essere papa, ma io e ovunque, chi ha qualche problema si rivolge a me» e che era stato proprio lui, Bernardo, ad «averlo generato per mezzo del Vangelo». Eugenio III incaricò Bernardo di predicare a favore della nuova crociata che si stava preparando, e che avrebbe dovuto essere composta soprattutto da francesi, ma Bernardo riuscì a coinvolgere anche i tedeschi. La crociata fu un completo fallimento che Bernardo giustificò, nel suo trattato La considerazione, con i peccati dei crociati, che Dio aveva messo alla prova. Questo trattato, finito di comporre nel 1152 si occupava anche dei compiti del papato, e Bernardo lo mandò a papa Eugenio che si dibatteva con le difficoltà procurategli dall'opposizione dei repubblicani romani, guidati da Arnaldo da Brescia. Le sue condizioni di salute cominciano a peggiore alla fine del 1152: ha ancora la forza di intraprendere un viaggio fino a Metz, in Lorena, per mettere fine ai disordini che travagliavano quella città. Tornato a Chiaravalle, apprende la notizia della morte di papa Eugenio, avvenuta l'8 luglio 1153 e muore il mese dopo. Rivestito con un abito appartenuto al vescovo Malachia, del quale aveva appena finito di scrivere una biografia, viene sepolto davanti all'altare della sua abbazia. Riguardo il suo pensiero teologico e filosofico, Bernardo esprime sul piano morale un orientamento ispirato, apparentemente, al pessimismo: « [...] generati dal peccato, noi peccatori generiamo peccatori; nati corrotti, generiamo dei corrotti; nati schiavi, generiamo degli schiavi. » San Bernardo, dunque, combatte alcune tesi del suo tempo, come la teoria secondo la quale i discendenti di Adamo (cioè noi) non abbiano in sé un «peccato originale» sin dalla nascita, ma solo un «malum poenae», un «male di pena». Bernardo dice anche: « L'uomo è impotente di fronte al peccato. » Ciò, evidentemente non è una giustificazione al peccato stesso, ma una spiegazione della miseria umana che nei nostri peccati si rivela, ma che è originata dal peccato originale che in ciascuno è impresso come un marchio. Dunque, la questione fondamentale è restaurare la natura umana, per riportare l'uomo al suo stato di «figlio di Dio», e dunque «essere eterno» nella beatitudine del Padre. Poiché ognuno porta in sé il peccato originale, però, nessuno può restaurare la propria natura da solo, ma può farlo solamente attraverso la «mediazione» di Cristo, che è «Soter» (cioè «Salvatore»), proprio in quanto per noi è morto, espiando al nostro posto quel peccato originale che nessun altro poteva espiare, essendone sottoposto. Nella sua opera De gradibus humilitatis et superbiae, tuttavia, dice che, per avere la «mediazione» di Cristo, l'uomo deve superare l'«io di carne», deve limitare e poi annullare la superbia e l'amore di sé, attraverso l'umiltà. Contro di sé, dunque, deve porre l'amore di Dio, poiché solo col Suo amore si ottiene anche la Sua vera intelligenza, e solo con esso « [...] l'anima passa dal mondo delle ombre e delle apparenze all'intensa luce meridiana della Grazia e della verità. » Nel "De diligendo Deo", San Bernardo continua la spiegazione di come si possa raggiungere l'amore di Dio, attraverso la via dell'umiltà. La sua dottrina cristiana dell'amore è originale, indipendente dunque da ogni influenza platonica e neoplatonica. Secondo Bernardo esistono quattro gradi sostanziali dell'amore, che presenta come un itinerario, che dal sé esce, cerca Dio, ed infine torna al sé, ma solo per Dio. I gradi sono:1) L'amore di se stessi per sé: « [...] bisogna che il nostro amore cominci dalla carne. Se poi è diretto secondo un giusto ordine, [...] sotto l'ispirazione della Grazia, sarà infine perfezionato dallo spirito. Infatti non viene prima lo spirituale, ma ciò che è animale precede ciò che è spirituale. [...] Perciò prima l'uomo ama sé stesso per sé [...]. Vedendo poi che da solo non può sussistere, comincia a cercare Dio per mezzo della fede, come un essere necessario e Lo ama. »
2) L'amore di Dio per sé: « Nel secondo grado, quindi, ama Dio, ma per sé, non per Lui. Cominciando però a frequentare Dio e ad onorarlo in rapporto alle proprie necessità, viene a conoscerlo a poco a poco con la lettura, con la riflessione, con la preghiera, con l'obbedienza; così gli si avvicina quasi insensibilmente attraverso una certa familiarità e gusta pura quanto sia soave. »
3) L'amore di Dio per Dio: « Dopo aver assaporato questa soavità l'anima passa al terzo grado, amando Dio non per sé, ma per Lui. In questo grado ci si ferma a lungo, anzi, non so se in questa vita sia possibile raggiungere il quarto grado. »
4) L'amore di sé per Dio: « Quello cioè in cui l'uomo ama sé stesso solo per Dio. [...] Allora, sarà mirabilmente quasi dimentico di sé, quasi abbandonerà sé stesso per tendere tutto a Dio, tanto da essere uno spirito solo con Lui. Io credo che provasse questo il profeta, quando diceva: "-Entrerò nella potenza del Signore e mi ricorderò solo della Tua giustizia-". [...] » (San Bernardo di Chiaravalle, De diligendo Deo, cap. XV)
Nel De diligendo Deo, dunque, San Bernardo presenta l'amore come una forza finalizzata alla più alta e totale fusione in Dio col Suo Spirito, che, oltre ad essere sorgente d'ogni amore, ne è anche «foce», in quanto il peccato non sta nell'«odiare», ma nel disperdere l'amore di Dio verso il sé (la carne), non offrendolo così a Dio stesso, Amore d'amore.

SAN GIOVANNI DELLA CROCE : al secolo Juan de Yepes Álvarez (in spagnolo: Juan de la Cruz; Fontiveros, 24 giugno 1542 – Úbeda, 14 dicembre 1591), è stato un presbitero e poeta spagnolo, cofondatore dell'Ordine dei Carmelitani Scalzi.
I suoi scritti vennero pubblicati per la prima volta nel 1618. Fu beatificato nel 1675 da Clemente X, proclamato santo da Benedetto XIII nel 1726 e dichiarato dottore della Chiesa da Pio XI nel 1926. La sua memoria è celebrata il 14 dicembre o il 24 novembre.
La Chiesa cattolica lo ha definito Doctor Mysticus.
La spiritualità di San Giovanni della Croce è eminentemente teologale. Lo schema teologale che il santo fissa in 2S (Secondo libro della Salita al Monte Carmelo) cap. 6, illumina e organizza perfettamente tutto il suo magistero. Da questo capitolo fino al termine della Salita, si delinea una chiara dottrina teologale, imbevuta della Parola di Dio, di cui Giovanni della Croce è innamorato; in questa stessa chiave presenta i misteri della fede (le “lampade di fuoco” degli attributi divini), il mondo dell’innamoramento reciproco tra Gesù Cristo e la persona, quale appare nei dittici Salita-Notte e Cantico-Fiamma. Con esattezza si è scritto del magistero sangiovanneo: “La vita teologale è attualizzazione e formazione degli atteggiamenti e dei comportamenti della persona attraverso le tre virtù teologali. Queste integrano, orientano, danno impulso e trasformano la persona e la vita, proiettandola totalmente verso Dio. Vita di fede, speranza e carità con tutto ciò che comporta di esigenze divine e rinunce umane, spirituali e terrene” (Isaia Rodríguez, “La vida teologal según el Vaticano II y San Juan de la Cruz”, in Revista de Espiritualidad 27 (1968), 477).

È utile riportare una lettera di Edith Stein scritta il 30 marzo del 1940, che si riferisce ad un aspetto molto importante della spiritualità di San Giovanni della Croce. Edith Stein riceve una lettera da Agnella Stadtmüller, religiosa domenicana, dottore in filosofia e sua amica, che le domanda che cosa intende san Giovanni della Croce per “amore puro”. Edith risponde con queste parole: “Per amore puro, San Giovanni della Croce intende l’amore di Dio per Dio stesso; è l’amore di un cuore libero da ogni attaccamento a ogni cosa creata: a se stesso e al resto delle creature, ma anche ad ogni consolazione e cose simili che Dio può concedere all’anima o ad ogni forma di devozione speciale, ecc. È l’amore di un cuore che non desidera altro che si compia la volontà di Dio, che si lasci guidare da Lui senza resistenza. Ciò che la persona può fare per arrivare fino a quest’amore è ampliamente trattato nell’opera Salita al monte Carmelo. Come Dio purifica l’anima, nel libro della Notte oscura. Il risultato si trova nella Fiamma di amor viva e nel Cantico spirituale. Fondamentalmente, si trova tutto il cammino in ciascuna delle opere; in particolare, in ognuna di esse si accentua un aspetto sugli altri. Però se si desidera apprendere l’essenziale, esposto in modo breve, allora si leggano gli Scritti brevi”.

SANTA CATERINA DA SIENA : Caterina nasce a Siena nel popolare rione di Fontebranda (contrada dell'Oca) il 25 marzo 1347. E' la ventitreesima figlia del tintore Jacopo Benincasa e di monna Lapa Piacenti. Caterina ha una gemella, Giovanna, che morirà poco tempo dopo la nascita. Fin da piccola Caterina frequenta i frati Predicatori della basilica di San Domenico, poco distante dalla sua casa, ed ha una vita interiore già molto intensa. Non sceglie però di diventare suora, sente che la sua missione è nel mondo, ed entra nelle Mantellate o Terziarie domenicane. Le terziarie erano donne che si dedicavano ad opere di carità e si raccoglievano in preghiera ogni giorno nella Cappella delle Volte, nella basilica di San Domenico.
Caterina fu donna libera nello spirito che amò la verginità consacrata al celeste sposo, Cristo Gesù e fu dotata dal Signore di eccezionali grazie mistiche, tra le quali il mistico sposalizio e le sacre stigmate.
Papa Giovanni Paolo II, in un suo discorso, ha definito la vergine di Fontebranda "messaggera di pace". Essa cercò di riportare la pace in seno alle famiglie ed alle città : fu intermediaria di pace a Pisa ed a Lucca, fra il Papato e la città di Firenze, e a Volterra riuscì a sedare gli odii fra due famiglie, una guelfa e una ghibellina.Inviata ad Avignone come ambasciatrice dei fiorentini per una non riuscita missione di pace presso papa Gregorio XI, dà al Pontefice la spinta per il ritorno a Roma, nel 1377.
Sempre Giovanni Paolo II ha detto di Santa Caterina che fu una “mistica della politica”. Nelle lettere ai politici suoi contemporanei essa ricorda che il potere di governare la città è un "potere prestato" da Dio. La politica, per la Santa Senese, è la buona amministrazione della cosa pubblica finalizzata ad ottenere il bene comune e non l'interesse personale. Per far questo il buon amministratore deve ispirarsi direttamente a Gesù Cristo che rappresenta l'esempio più alto di giustizia. La giustizia infatti, nella dottrina politica di Santa Caterina, assume un ruolo fondamentale; senza giustizia non c'è pace e se manca la pace viene meno il presupposto che sta alla base della crescita sociale e morale di uno stato. Scrive ai Consoli e Gonfalonieri di Bologna :"Se voi sarete uomini giusti che il reggimento vostro sia fatto… non passionati né per amor proprio e bene particolare, ma con bene universale fondato sulla pietra viva Cristo dolce Gesù".
Non avendo studiato, dettava le sue lettere, che sono numerose, e i suoi trattati, in particolare la sua opera principale il "Dialogo della Divina Provvidenza", terminato nel 1378, due anni prima della morte. Essa, infatti, non aveva frequentato nessuna scuola e la sua cultura si formò piuttosto ecletticamente. Toccò tutti i punti della teologia: la Trinità, Gesù Cristo, la Chiesa, i sacramenti, il sacerdozio, i religiosi, la famiglia, la vita spirituale.
Muore a soli 33 anni, consumata dal suo amore per la Chiesa: un ‘curriculum vitae’ tanto breve quanto intenso. Sarà canonizzata nel 1461 dal papa senese Pio II. Nel 1939 Pio XII la dichiarerà Patrona d’Italia con Francesco d’Assisi. Nel 1970 avrà da Paolo VI il titolo di Dottore della Chiesa e, infine, l’attuale Pontefice, Giovanni Paolo II, nel 1999, l’ha proclamata Patrona d’Europa insieme a S. Brigida di Svezia e S. Benedetta della Croce (Edith Stein).
«Dio ha suscitato Caterina in un momento difficile della storia della Chiesa. In un momento altrettanto difficile, quale è il nostro attuale, la Chiesa ha ancora bisogno di Caterina. Caterina non è morta. Essa è più viva che mai. La sua voce forte, severa, materna, echeggia ancora» (dal Breviario Cateriniano, ed. Cantagalli, 1996).



“Non accontentatevi delle piccole cose. Dio le vuole grandi. Se sarete quello che dovete essere, metterete fuoco in tutta Italia”.

“Avete taciuto abbastanza. E’ ora di finirla di stare zitti! Gridate con centomila lingue. Io vedo che a forza di silenzio il mondo è marcito”.





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